Pagina: “Economia”

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   La BCE 
   Next Generation EU - Dispositivo per la ripresa e la resilienza (PNRR)
   Meccanismo europeo di stabilità (MES)
   Euro. Organizzazione dell'eurozona (regole per i bilanci pubblici ed altro).
   Congiuntura economica in Italia e nei paesi UE - Politica economica.
   Il bilancio dell'Unione europea

Le sottopaginee "Materiali" e "Grafici" di questa pagina conterranno informazioni e dati che possono essere utili alle discussioni.

In questa pagina ospiteremo discussioni su temi economici come le regole di bilancio, i meccanismi di gestione dell'unione monetaria europea, la politica economica dei vari paesi europei, le decisioni della BCE, il PNRR, l'eventuale creazione di nuovi meccanismi di spesa a livello comunitario ed anche problemi relativi al bilancio dell'UE.

Altre discussioni potranno essere aperte per rispondere a nuovi sviluppi o agli interessi dei partecipanti

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Risposte

  • L'affaire produttività* - Lavoce.info

    L’affaire produttività | R. Greco
    Da anni l’Italia accumula ritardi nella crescita della produttività. A penalizzarci non è la struttura settoriale dell’economia, bensì una dinamica d…
  • Per gettare luce su di alcuni commenti effettuati in discussioni all'interno del circolo di Bruxelles posto un grafico con l'andamento delle entrate e delle uscite totali della nostra pubblica amministrazione.   I dati sono in percentuale del PIL, cosa che corregge per l'andamento inflazionistico, ma che può spingere i valori verso l'alto in corrispondenza a periodi di recessione (2008/2009; 2012/2013 e 2020).

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  • Le discussioni sulla legge di bilancio per il 2024 mostrano bene come e perché si fa debito pubblico nel nostro paese.   Non per fare delle riforme fondamentali, non per fare investimenti che aumentino il potenziale di crescita nel nostro paese.   Si fa debito per soddisfare le promesse fatte al proprio elettorato, tanto le conseguenze negative di questo nuovo debito si vedranno tra qualche anno, quando al governo ci sarà qualcun altro.   

    E purtroppo la nostra opinione pubblica non si rende conto dell’irresponsabilità di questi comportamenti.   Siamo l’unico paese dell’Unione europea ad aver sempre fatto nuovi debiti ogni singolo anno dal 1961 ad oggi (il 1961 è l’anno dal quale si possono avere statistiche affidabili per la maggioranza dei paesi).   Ogni anno abbiamo fatto nuovi debiti che la crescita ci fosse o no.   Abbiamo dato un’interpretazione cialtronesca degli insegnamenti keynesiani. 

    Nel 2019, ultimo anno “normale”, 15 paesi europei su 27 avevano un bilancio in pareggio o in avanzo.   Noi non riusciamo nemmeno a concepire un bilancio in pareggio.   L’anomalia tra i paesi europei – da questo punto di vista – siamo noi.   

    Oggi non solo c’è un po’ di crescita (non siamo in recessione), ma abbiamo un tasso di inflazione troppo alto, oltre il doppio dell’obiettivo da tutti accettato.   In questa situazione, la politica di bilancio dovrebbe essere restrittiva.   Non esiste nessuna ragione macroeconomica per aumentare il disavanzo rispetto alla sua tendenza spontanea.   Al contrario, sarebbe necessario ridurlo; si dovrebbe cercare di fare meno nuovi debiti rispetto a quelli che si dovrebbero fare a legislazione costante. 

    Già oggi paghiamo sui nostri titoli a dieci anni il tasso di interesse più alto di qualsiasi paese dell’eurozona.   Paghiamo quasi mezzo punto percentuale più della Grecia.   

    L’anno scorso abbiamo pagato in interessi sul debito pubblico (in proporzione al PIL) circa sette volte quello che ha pagato la Germania, due volte e mezza quello che ha pagato la Francia e quasi il doppio di quello che ha pagato la Spagna. 

    Questo governo vuole aumentare in maniera discrezionale i disavanzi del 2024 e 2025 di circa 23 miliardi di euro.   Questo significa, ai tassi attuali, più di un miliardo di euro all’anno di maggiori interessi.   Quand’è che l’opinione pubblica italiana si rendera conto di quanto irresponsabile è questa politica? 

    Delle regole di bilancio europee più rigide ed efficaci (quelle passate non hanno frenato in nulla le nostre sciagurate tendenze), se fossero possibili, sarebbero nell’interesse del nostro paese.

    • Questa è purtroppo la fotografia.  Continuiamo ad avere peones di ogni genere all’attacco della carrozza Stato.

      Io non ho tuttavia perso la speranza che la sinistra si renda conto che una gestione severa della cosa pubblica – che non significa tout court “austerità” – è una premessa irrinunciabile per tirarsi fuori da un pantano che si va facendo più profondo a tutto vantaggio dei propri elettori.

      Pochi parlano:

      • Di riqualifica del personale dell’amministrazione in tutti i suoi settori - le difficoltà incontrate con il PNRR non sono altro che una riedizione in grande della stranota incapacità del nostro paese di utilizzare i fondi europei.
        L’attuale DEF riduce ulteriormente le possibilità di intervento e con esse il necessario processo di ammodernamento di strutture popolate da personale prossimo alla pensione (fino al 2026 si attendono circa 725mila pensionamenti nella pubblica amministrazione). È difficile seguire sulla base dei fatti quanto raccontava ad esempio il ministro della PA Zangrillo in marzo allorché preannunciava 150mila assunzioni all’anno su un totale attuale del personale di circa 3,2 milioni di unità– la sola matematica dice che non si coprano i pensionamenti, supposto che si riesca a procedere secondo programma (150mila x 4 anni = 600mila).
        Dall’altra parte, stando a sinistra fa specie che molti (troppi) vedano i problemi prevalentemente sotto l’ottica della trattativa sindacale sulle remunerazioni e il carico di lavoro. Molto di più è in gioco.
      • Di una prioritizzazione degli interventi dello Stato dopo una ridefinizione dei suoi compiti e obiettivi – in particolare in quello che un tempo si chiamava politica industriale – e un “Kassensturz”, come dicono in Germania – ovvero di un inventario di tutti gli interventi correnti e di investimento necessari.
      • Di una definizione della strategia finanziaria in una situazione di ristrettezze al fine della realizzazione di un programma come dal punto precedente che includa il PNRR.

      Chi avrà il coraggio di cominciare questi discorsi a sinistra?

  • Secondo il sito https://www.marketwatch.com/investing/bond/tmbmkit-10y?countrycode=bx (uno dei principali che forniscono i dati per vari paesi) il rendimento dei titoli di stato italiani era stamattina (28 settembre) del 4.887 per cento.   Secondo lo stesso sito il rendimento dei titoli di stato greci a dieci anni era stamattina del 4.420 per cento.  

    In qualcosa siamo i campioni d’Europa.   Nel 2022 i pagamenti per interessi sul debito pubblico italiano in percentuale del PIL sono stati pari a sette volte quelli tedeschi: 3.5 per cento contro lo 0.5.   Se i disavanzi potessero far crescere di più un’economia nel medio/lungo termine noi dovremmo essere il paese con il più alto tasso di crescita nell’Unione europea.   Invece siamo il paese che negli ultimi trenta anni ha avuto il tasso di crescita più basso. 

    Il governo Meloni, per soddisfare una piccola parte delle sue promesse elettorali, vuole fare per il 2024 nuovi debiti per una cifra ben più alta del disavanzo tendenziale.   Cosa dirà la Commissione europea con la von der Leyen alla ricerca dei voti di Giorgia Meloni per la sua rielezione?  

    Cosa diremo noi come PD ?

    TMBMKIT-10Y | Italy 10 Year Government Bond Overview | MarketWatch
    TMBMKIT-10Y | A complete Italy 10 Year Government Bond bond overview by MarketWatch. View the latest bond prices, bond market news and bond rates.
  • Un importante contributo dell'Osservatorion sui conti pubblici.

    https://osservatoriocpi.unicatt.it/ocpi-pubblicazioni-il-comma-22-d...

    Il Comma 22 del debito europeo | Università Cattolica del Sacro Cuore
    I titoli di debito comune europeo avevano avuto un esordio brillante, eppure molti Paesi riescono ora a finanziarsi a tassi più bassi dell’UE.
  • Riporto per esteso un ottimo commento di Federico Rampini su alcuni sviluppi del processo di integrazione europea.     Viene dalla sua Newsletter del Corriere della Sera (“Whatever it takes”) del 18 settembre 2023.

    Abbiamo commenti su questo testo ?

    Che implica per le politiche economiche che auspichiamo e per il processo di integrazione europea ?

    Omertà ai vertici europei sulle sfide tecnologiche.   E i ministri si nascondono

    In anni lontani, fra il 1994 e il 2002, ho seguito ogni singolo Ecofin “informale” del calendario europeo.   Si tratta di incontri dei ministri finanziari e dei banchieri centrali dell’Unione europea convocati, due volte l’anno, in qualche località amena e un po’ fuori mano del Paese organizzatore (quella della “presidenza di turno”).   Si chiamano “informali” non perché lo siano, ma perché servono a trattare i temi di fondo e a formare orientamenti senza la tirannia del dover approvare misure legislative.

    Quasi trent’anni fa avevo seguito Ecofin informali con Lamberto Dini ministro del Tesoro del suo stesso governo o Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro del primo governo di Romano Prodi.   Governatore della Banca d’Italia era Antonio Fazio.   Ministro delle Finanze tedesco, con Helmut Kohl cancelliere, Theo Weigel; presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer.   Qualcuno ricorderà quei volti e quei momenti.   Poi ho fatto altro a lungo, fino a quando ho deciso di tornare per una volta a un Ecofin informale: quello di venerdì e sabato scorsi a Santiago de Compostela, in Galizia, Spagna.   Così sono diventato involontariamente il soggetto di un esperimento comportamentale: mettere e confronto com’erano quegli eventi tre decenni fa e come sono ora, senza aver visto niente nel frattempo; l’occhio era fresco, non addomesticato, perfetto per notare le differenze.

    Non ho potuto fare a meno di chiedermi quand’è che per i decisori politici è diventato normale non informare i giornalisti.   Venti o trent’anni fa Dini o Ciampi o Vincenzo Visco, Theo Weigel o, in seguito, Giulio Tremonti, oltre a tutti gli altri ministri finanziari dei diversi Paesi uscivano da un giorno e mezzo di riunioni informali, si sedevano davanti ai reporter da qualunque Paese venissero (bastava entrare nella stanza delle diverse delegazioni) e spiegavano.   Loro in persona.   Ho visto Ciampi illustrare tutti i temi dei dibattiti leggendo dai suoi appunti, anche se non riguardavano l’Italia, seduto accanto a un direttore generale del Tesoro di nome Mario Draghi.   Rispondevano a tutte le domande.   L’intera prima linea del Tesoro era là, a seguire e a spiegare meglio ai giornalisti se occorreva.   E così i ministri e i governatori degli gli altri Paesi.

    I media di tutta Europa ne uscivano con un’idea dei temi di fondo, non solo del ristretto angolo d’interesse di ciascun governo in ogni momento dato.   E qualcosa, in questa agenda più ampia, arrivava all’opinione pubblica.

    Non è il caso di idealizzare il passato, chiaro.   Anche allora i politici erano scaltri.   Avevano i loro obiettivi, enfatizzavano o sorvolavano i vari punti secondo le convenienze.   Lo faceva Ciampi; lo faceva moltissimo Gordon Brown, quando era cancelliere dello Scacchiere di Londra.   Lo facevano tutti, com’è normale.   Ma tutti si esponevano ogni volta alle domande di chiunque, a lungo.   E l’Ecofin non perdonava.   I giornalisti potevano confrontare la versione dei loro ministri nazionali con quella di ministri e governatori degli altri Paesi, per capire chi stava mentendo, dove e perché, e cosa veniva omesso, cosa esagerato.   Era una scuola di trasparenza e, francamente, di giornalismo.   dal confronto fra le varie versioni si facevano veri e propri scoop.   Era una ginnastica che educava noi nei media alla pluralità delle fonti.   E aiutava a rendere l’opinione pubblica un po’ più consapevole e meno chiusa dentro la prospettiva del proprio ceto politico locale. 

    A Santiago ho trovato tutto questo, semplicemente, azzerato.   Non so quando sia avvenuto il cambiamento, ma alcuni ministri si limitano a incontrare giusto la loro delegazione nazionale di giornalisti il giorno prima delle discussioni più importanti: parlano in “off the record” – contenuti non citabili, non attribuibili, dunque smentibili all’occorrenza – e si limitano a indottrinare l’uditorio sulla loro posizione.   Il loro punto di vista e nient’altro.   Altri ministri, come l’italiano Giancarlo Giorgetti – ma non è il solo – neanche compaiono.   Si limitano a mandare in sala stampa un addetto ai rapporti con i media con il compito di riportare pochi, scarni messaggi e con nessuna latitudine per rispondere a qualunque domanda.   Persino le conferenze stampa generali, quelle della presidenza, sono più vuote di domande e più povere di risposte.   Poco più che soundbites, parole d’ordine ripetute alla noia.   Materiale per video di trenta secondi sui social media.

    Naturalmente il mio non è altro che un lamento del genere “o tempora, o mores”, che rivela la mia età (sì: 57).   Ma la domanda più seria è un’altra: perché l’Ecofin è cambiato tanto e cosa dice questo cambiamento dell’Europa?   

    La risposta, credo, è a diversi livelli.   In primo luogo dev’esserci una sorta di patto di non aggressione fra ministri: se nessuno si espone a parlare, le versioni degli uni e degli altri non sono più confrontabili e non si corre più il rischio di mettersi in imbarazzo a vicenda.   Un effetto collaterale però è che la trasparenza si perde e così anche la capacità dei cittadini e dei ceti dirigenti nazionali di capire cosa realmente stia accadendo in Europa.   Loro e gli elettori si muovono come in una stanza semibuia.   Diventa più difficile formare orientamenti nazionali con una visione che non sia di cortissimo respiro.

    Qui scatta un secondo livello.   Se i ministri soggettivamente scelgono di nascondersi, è perché l’Europa non è popolare: temono che essere visti come troppo impegnati, aldilà della difesa ostinata a Bruxelles di un presunto interesse nazionale, nuoccia loro elettoralmente.   L’ultimo sondaggio Ipsos pubblicato da Nando Pagnoncelli sul “Corriere” mostra come l’approvazione dell’Unione europea sia molto scesa in Italia dalla crisi del debito e da allora non si sia più ripresa.   Una prospettiva più lunga, a trent’anni fa, rivelerebbe un calo anche più forte.   Ma l’omertà dei politici non fa che alimentare la diffidenza dell’opinione pubblica, così come l’impreparazione del ceto politico quando entra in contatto con le istituzioni europee: una spirale negativa che si autoalimenta.

    Ne deriva il terzo livello di spiegazione, il più serio: come sanno forse i lettori di questa newsletter, l’Europa sta perdendo la corsa industriale internazionale in tutte le tecnologie di frontiera.   Non ha alcuna sovranità nei semiconduttori più avanzati, dunque nell’intelligenza artificiale; non ha accesso autonomo allo spazio con i suoi satelliti perché, come ha spiegato Samantha Cristoforetti al Forum Ambrosetti di Cernobbio, non ha lanciatori spaziali; è totalmente dipendente dalla Cina per gli ingredienti farmaceutici e per la prima volta in ritardo sulla Cina in una serie di antitumorali di nuova generazione.   E sta perdendo la competizione globale alla supremazia, o anche solo alla possibilità di competere, nella mobilità elettrica.   L'anno scorso la Cina ha prodotto dieci volte più veicoli a batteria della Germania.   L’Agenzia internazionale dell’Energia prevede che nel 2030 i modelli elettrici rappresenteranno il 35% delle vendite di auto nel mondo e i marchi cinesi (a partire da Byd, partecipata da Warren Buffett) stanno conquistando l’Europa con i loro prezzi imbattibili: nell’elettrico, hanno già una quota di mercato dell’8% che sta salendo rapidamente.

    A tutto questo Von der Leyen ha risposto mercoledì scorso ipotizzando dazi sull’auto cinese, a causa dei sussidi.   Ma era chiaro parlando con gli addetti ai lavori a Santiago come la stessa presidente della Commissione sappia che si tratta di una minaccia vuota.   L’indagine antidumping di Bruxelles andrà avanti molto a lungo - la si farà durare - ma nessuno in Europa oserà esporsi a ritorsioni commerciali della Cina: siamo troppo dipendenti dal suo mercato.

    A Santiago si è parlato poco di questi problemi pressanti, ma un po’ sì.   La presidenza spagnola ha invitato un managing director di Citadel, un grande fondo americano, che ha francamente fatto capire ai ministri come stanno le cose.   Si chiama Angel Ubide e ha detto: “L’Unione europea ha bisogno di una revisione per arrivare a un’autonomia strategica aperta (non protezionista, ndr)” e per questo servono anche eurobond che finanziano almeno in parte “beni pubblici” europei, cioè capacità di competere nel mondo sulle tecnologie di punta con investimenti su scala europea.   Ma pochi governi vogliono sentirne parlare: in Germania perché si teme di pagare per gli altri; in Italia perché si teme che il governo di questi processi di modernizzazione sia inevitabilmente europeo, dunque il ceto politico nazionale perda ancora più potere.

    Così nessuno spiega nulla di quanto viene detto in sala nei vertici, l’opinione pubblica resta al buio e si orienta sempre più, in molti Paesi europei, verso partiti nazionalisti che offrono consolazioni - a parole - facili.   E gli Ecofin informali diventano eventi vacui, tediosi: celebrati dentro una bolla di irrealtà.

    ***

  • Un contributo molto utile per le discussioni sulla legge di bilancio 2024.

    Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani | Università Cattol...

    Università Cattolica del Sacro Cuore
    Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
  • Pierantonio,

    commento quello che hai scritto sul keynesianesimo.   Credo noi si abbia delle posizioni leggermente diverse.

    Il messaggio principale del keynesianesimo – il fatto che sia opportuno sostenere la crescita in un periodo di recessione attraverso un aumento della spesa pubblica finanziato a debito – fa da parecchio tempo parte integrante del “consenso” economico utilizzato dalle organizzazioni internazionali e dai principali paesi industrializzati.  

    Molti non ricordano che nell’ottobre del 2008 la Commissione europea invitò i paesi UE a provocare un deterioramento discrezionale delle loro finanze pubbliche nel 2009 di almeno un punto di PIL oltre al deterioramento provocato dai cosiddetti “stabilizzatori automatici”.   Durante la recessione provocata dal Covid e per finanziare gli aiuti all’Ucraina tutti i paesi industrializzati hanno aumentato fortemente la loro spesa pubblica finanziandola in disavanzo (avendo il pieno sostegno di Ocse, FMI e Commissione europea).   

    Per quanto riguarda quindi questo insegnamento il keynesianesimo ha vinto ed è accettato da tutti.

    Dove ci sono invece delle differenze tra i paesi e tra gli economisti è nella misura degli interventi da prendere, caso per caso.   Nel caso della pandemia da Covid l’intervento “keynesiano” degli Stati Uniti è stato molto più forte di quelli decisi dalla maggioranza dei paesi europei.

    Ma la differenza residua più forte è su cosa si debba fare tra un intervento di sostegno e un altro.   Keynes era assolutamente convinto che fosse necessario avere degli avanzi di bilancio nei periodi in cui la crescita era normale o buona.   Keynes aveva una grossa paura degli alti debiti pubblici.   Oggi non saprebbe spiegarsi i livelli di debito che prevalgono nei paesi industriali avanzati.

    Qui le differenze tra i paesi europei sono molto forti.   Molti sono veramente “keynesiani” e vogliono che tra i periodi di necessario sostegno si abbiano avanzi consistenti per recuperare gli aumenti di debito pubblico fatto precedentemente e per creare “margini di manovra” da utilizzare in future crisi.   Nel 2019, 15 paesi UE su 27 avevano un bilancio pubblico in pareggio o in avanzo.   Le organizzazioni internazionali sono su questa linea.

    Chi non è “keynesiano” è l’opinione pubblica italiana (di destra, di centro o di sinistra).   Il nostro paese ha sempre avuto disavanzi dal 1961 ad oggi, che la crescita ci fosse o no.   Purtroppo da noi, grazie anche alla brevità dei governi, prevale l’opportunismo.   I vantaggi della spesa pubblica addizionale si vedono subito.   I costi appaiono dopo alcuni anni; quando al governo ci sarà qualcun altro.   Queste due considerazioni portano a decisioni ovvie.

    • Fabio,

      ti ringrazio per la tua risposta punuale che tuttavia mi sembra non riprendere in pieno il senso che intendevo dare al mio riferimento a Keynes.

      Se è vero effettivamente che una delle raccomandazioni centrali di Keynes in materia di politica economica era l’uso più attivo e flessibile dello strumento fiscale, io mi riferivo in realtà principalmente a un tema a monte, quello del suo contributo fondamentale alla rivalutazione dell’economia come disciplina sociale volta a definire e raccomandare politiche intese alla creazione di un equo benessere per la comunità.  Joan Robinson, insigne economista oggi immeritatamente trascurata, notò come con Keynes “L’economia divenne nuovamente politica economica” (Economic Philosophy).

      Ricorderai come il mondo accademico dei nostri tempi universitari a cavallo degli anni sessanta e settanta fosse occupato a disegnare strategie di attenuazione dei cicli economici a beneficio di una crescita economica graduale e continua in cui l’imposizione fiscale non poteva che essere progressiva a beneficio di una distribuzione equa del reddito. Era il tempo della disputa tra le due Cambridge e dei duelli tra i risorgenti monetaristi alla Friedman e appunto i keynesiani. I dibattiti economici mostrano oggi meno respiro, chiusi nella gabbia di una teoria economica impregnata di spirito ortodosso e fortemente debitrice verso la statistica alla ricerca di una causalità problematica e a scapito del ragionamento logico. Keynes, studioso riconosciuto anche nel campo della statistica, era avverso ai tecnicismi eccessivi che sembrano sovente prevalere oggi.

      I fini del nostro agire sono centrali per Keynes e non possono che portarci a un atteggiamento critico. Ciò anche verso il sistema capitalista che, se accettato (al pari di Adam Smith per convenienza - “expediency” - come diceva la Robinson), non può andare esente da severi biasimi nel momento in cui viene visto in un contesto storico: “Per quanto mi riguarda, penso che un capitalismo gestito saggiamente possa essere reso più efficiente in termini economici più di ogni altro sistema alternativo sott’occhio, ma penso anche che in sé esso sia profondamente criticabile. Il nostro problema è quello di dovere creare un’organizzazione sociale che sia la più efficiente possibile senza andare contro i nostri criteri di un modo di vita soddisfacente.” (Essays in Persuasion)

      Munito di un nuovo ricettario rispetto al consenso dei suoi tempi Keynes poteva dire agevolmente che “Nel campo dell’economia … dobbiamo trovare in primo luogo nuove politiche e nuovi strumenti al fine di modificare e controllare l’azione delle forze economiche in modo che esse non interferiscano intollerabilmente con l’idea di quello che è adatto ed appropriato nell’interesse della stabilità e giustizia sociale.” (Am I a Liberal?)

      Se è vero che non abbiamo oggi un nuovo Keynes che ci permetta di tracciare un indirizzo del tutto nuovo per la politica economica, non possiamo tuttavia tacere sulla profonda insoddisfazione rispetto alle politiche economiche attuali e ammettere che, a parte la definizione di obiettivi generali di efficientamento dell’economia sulla falsariga di proposte più che note, poco si sente in merito ad obiettivi che ci permettano appunto, come diceva Keynes, di rispettare le nostre convinzioni in materia di “stabilità e giustizia sociale”.

      Le sfide di fronte alle quali ci troviamo richiedono uno sforzo che va ben al di là della gestione ordinaria che permetta in fase di congiuntura favorevole di ripianare i debiti contratti dallo stato nei momenti di crisi. Nessuno può porre seriamente in dubbio l’esistenza di limiti all’indebitamento – non solo pubblico. Né si può sorvolare sul fatto che il nostro paese non abbai saputo, dopo il ventennio di forte avanzamento nel secondo dopoguerra, gestire in modo oculato le proprie finanze - con il socialista Craxi tra i maggiori responsabili. Ma occorre trovare le ingenti risorse finanziarie necessarie per eseguire i programmi più che impegnativi cui ci troviamo davanti e che non sono differibili. Il rischio che ciò avvenga in modo sproporzionato attraverso la compressione dei consumi a carico dei ceti più deboli è purtroppo reale.

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